Alcuni giorni fa, stavo aspettando che arrivasse dal paese natio, il mio amico Salvatore Garufi “Rocambole".
Per non sprecare il tempo che dovevo passare in auto, pensai che una riflessione su uno studio tematico da fare e pubblicare sul periodico del CSSSS, “Ju, Sicilia" sarebbe
stato utile ai lettori del nostro Sito. L'argomento di questo studio incorniciava un episodio accaduto e consumatosi il primo maggio del 1947. Circa tremila persone,
tra cui donne e bambini, si erano radunate presso un valico montano per celebrare l'annuale festa dei lavoratori, da molti lustri un appuntamento quasi sacrale. In
questa zona piena di pietre autoctone, tra San Giuseppe Jato, San Cipirello e Piana degli Albanesi, chiamata “Portella della Ginestra”. Un panorama lunare: i dossi e le
creste rocciose della Kumeta e della Maja e i costoni della Pelavet affettuosamente, per tutti, "la Pizzuta". Chiamata così per la conformazione, un ammasso di rocce
appuntite custode da millenni della vita e della morte di questo squarcio di mondo.
Portella della Ginestra è ricordata principalmente perché in questo luogo persero la vita 11 persone
e 56 rimasero ferite. Un tragico episodio definito all'unanimità: "La strage di Portella della Ginestra".
Eccidio che necessita di un'attenzione critica perché, a parere nostro, legato ad un disegno criminale ampio ed eversivo. Facile da capire se mettiamo insieme le
sequenze di alcuni tasselli che la storia ufficiale o di regime ha voluto seppellire in questa parte di Sicilia martoriata. L'argomento principale che ci accingiamo a
raccontare, non è la tragedia di Portella della Ginestra. Vogliamo raccontarvi del personaggio che è legato a questo eccidio. Gli attori, le comparse e i
registi di questa piece teatrale. Il personaggio chiave si chiama Salvatore Giuliano!
Nato il 16 novembre 1922 a Montelepre, piccolo paese in provincia di Palermo, alle pendici del monte d'Oro. Il padre si chiamava Salvatore (allora era possibile
mettere ai nascituri lo stesso nome di uno dei genitori), Maria Lombardo era la madre. Onesti contadini che agli inizi del 1900 emigrarono negli Stati Uniti d'America
e proprio quell'anno rientrarono in Sicilia. Col sudore della fronte e col duro lavoro, i genitori di "Turiddu" (così veniva chiamato Salvatore
perché in Sicilia il vezzeggiativo è un'istituzione familiare: Salvatore=Turi=Turiddu), coi soldi messi da parte facendo sacrifici aldilà dell'Oceano e mangiando "pane e pane", acquistarono alcuni
appezzamenti di terreno. Possiamo dire, quindi, che la famiglia di Turiddu aveva di che mangiare. A sentire Mariannina, la sorella più grande di Turiddu, la loro
infanzia trascorse come si poteva trascorrere in un piccolo paese dell'entroterra siciliano in quegli anni del dopoguerra, senza molti svaghi, con semplici divertimenti e
tanti sogni.
Diversi pennivendoli hanno partorito libri e saggi su Giuliano. Perfino su documentari e film si raccontano le gesta del picciotto monteleprino. Tutti, nei
titoli, hanno dichiarato, come se fosse Manna dal cielo, trattarsi della VERA STORIA di Giuliano, del bandito Giuliano. Siamo convinti che la verità assoluta non esiste e non siamo in grado di trasmetterla ad altri.
La religione, quando non sa dare risposte ci indica la strada della fede. Sappiamo che la storia dei vinti è spesso manipolata e quella dei vincitori alterata.
Che fare allora se si vuol scrivere la storia di un fatto eclatante e di coloro che ne sono protagonisti o in parte coinvolti, volenti o nolenti? Platone, il filosofo
greco, se fosse vissuto in questo secolo, li avrebbe disprezzati in malo modo, obbligandoli ad usare la parola giusta: Epistème. Sì, avrebbe dato tanti di ddi
tumpulatuna 'o scuru, fino a fargli usare la ragione affinché usassero le parole giuste: "scrivere il sapere certo". Epistème, mostrare i dati di fatto. Allora,
con questo nostro piccolo contributo, ristabiliamo il concetto di onestà intellettuale.
Ci viene a mente un fatto accaduto nel 1630 a Milano. Fu eretto un monumento, detto "Colonna infame", un marchio d'infamia nei confronti di 2 persone, due
presunti untori, visto che la città fu invasa dalla peste. Queste persone sarebbero state la causa della vasta diffusione della peste. Grazie ad Alessandro Manzoni,
il fatto ebbe vasta eco avendolo inserito in un suo saggio dal titolo: La storia della colonna infame. Non sappiamo, conoscendo l'ironia del drammaturgo belpassese,
Nino Martoglio, se si ispirò a questo fatto, scrivendo la commedia 'U Contra, dove personaggi con aria sbruffonata, millantano le loro presunte conoscenze in
ogni settore della scienza e cercano di spiegare pseudo-scientificamente la causa della pestilenza.
Così è successo con Turi Giuliano. Pochi, tra coloro che si sono avventurati a scriverne la biografia o romanzato i suoi pochi anni di latitanza, fino alla morte,
hanno fatto ricorso all'episteme. Invece, si sono auto incensati trasformandosi in storiografi, raccontandoci fatti ed episodi che non stanno nè in cielo nè in terra.
Non si sono presi il tempo di vagliare e confrontare le peripezie e tutte le vicende alle quali era coinvolto Turiddu. La dimostrazione è evidente fin dall'inizio
dei loro racconti, sbagliando date, avvenimenti e fatti importanti. A questi storici interessava presentare alle masse, una sorta di romanzo criminale. Prendere a piene
mani da trogoli senza fondo è la caratteristica di certa gente. Possiamo giustificare i Cantaturi, i vecchi Cantastorie che erano costretti a mitizzare le
loro storie fantasiose, perché dovevano sbalordire quel piccolo gruppo di povera gente, in buona parte analfabeta, che non poteva permettersi di andare al cinematografo.
Turiddu Giuliano, il nostro personaggio, cresce in un periodo difficile della storia umana. Le conseguenze della grande guerra, quelle della seconda guerra mondiale,
e l'invasione anglo-americana. Lungi dall'essere giochi pirotecnici o passeggiate ai giardinetti, le due guerre, l'invasione e la fame, sono state delle immani tragedie.
Se oggi la gente si esaurisce e si stressa per futili motivi, pensate alla miseria, ai bombardamenti e ai morti sparsi per strada come sacchetti dell'immondizia.
La scena di quel periodo storico, per chi ha fervida immaginazione, è una delle più drammatiche alchimie degli esseri umani. Salvatore Giuliano
ha poco più di vent'anni, è un bel ragazzo e pensa prima di tutto a non far mancare qualcosa da mangiare ai suoi genitori e ai suoi fratelli: iniziamo da qui la nostra
storia. Prima però, facciamo la conoscenza di altra gente, altri uomini e donne che direttamente o indirettamente si legano al nostro personaggio.
Parliamo di Concetto Gallo, di Franco (Frank) Mannino, di Attilio Castrogiovanni e di Mariannina Giuliano, sorella di Turiddu. Queste persone le abbiamo
conosciute personalmente. Ebbero un ruolo importante nell'E.V.I.S. e nella vita di Giuliano, nel bene e nel male. Inoltre, cosa molto importante, abbiamo attinto
informazioni preziose e aneddoti dal caro amico Pippo Scianò (vivente), memoria storica dell'indipendentismo e presidente onorario del F.N.S.-Sicilia Indipendente.
Quindi, non abbiamo la presunzione di essere portatori della verità assoluta, ma abbiamo la certezza che le nostre informazioni non temono smentite.
Concetto Gallo,
(11 gennaio 1913 - 1 aprile 1980) catanese, quando poteva, faceva un salto e veniva a
trovarci in quel rifugio peccatorum che era la nostra piccola stanza di via Ospedale Vecchio a Catania (abitazione di Egidio Di Maura, componente del F.N.S. di
Catania), dove la domenica mattina ci riunivamo per parlare dei politici siciliani, ascari al soldo dei partiti italiani sbarcati in Sicilia; della condizione di
miseria della nostra Isola, dell'aeroporto Magliocco di Comiso, perché si vociferava della possibilità di fare installare dei missili Cruise a Comiso anche se l'informazione
di regime ci assicurava che non sarebbero mai arrivati in questo aeroporto, diventato col tempo base militare della NATO. La vignetta, che pubblicammo sulla nostra rivista
mensile del 1961, Sicilia Indipendente, ci dà una indicazione degli argomenti di cui si discuteva e ci presenta l'immagine realistica di come erano molti siciliani
asserviti al dominatore di turno.
Qualcuno, siamo sicuri, direbbe volentieri che NON È
CAMBIATO NULLA! Appropriatamente il compianto Natale Turco,
con disprezzo, chiamava questi ascari, topastri e i loro galoppini, vili individui senza dignità. Concetto Gallo stava seduto, ascoltava e spesso interveniva. Un uomo
di carattere.
A memoria d'uomo, ricordandolo con piacere, era assidua anche la presenza di un idealista, che parlava poco: Rosario (Saro) Fasanaro.
Non era raro vederlo davanti alla sede del M.I.S. intitolata ad Antonio Canèpa; la SUA sede, il suo regno, in via Vittorio Emanuele II, a pochi metri dal nostro avamposto. Saro aveva lo sguardo malinconico
e la sigaretta accesa in bocca. Un giorno, ci diceva, in tutta la Sicilia sventoleranno le nostre bandiere. Se fosse ancora vivo ci chiederebbe ancora una volta: "Ma
cu 'a tincivu che culuri da bannera siciliana 'a statua di Garibaddi davanti 'a Villa? E noi a dirgli: Saro, stai attento che sei uno dei sospettati. E lui, scantatu, guardandoci
in faccia, ci rispondeva: ju non sacciu nenti, ju ne fazzu sti cosi". Era una brava persona. Morì col desiderio di vedere una Sicilia libera e indipendente.
Concetto Gallo era affascinato da Antonio Canèpa che allora aveva scelto come nome di battaglia lo pseudonimo Primo Turri. Alla morte del professore
guerriero, Concetto volle dimostrare a tutti che l'E.V.I.S. come organizzazione di combattenti per una giusta causa, respirava ancora; aveva sì subìto delle perdite
importanti, ma era vivo. Decise quindi, subito dopo la morte di Canèpa, ammazzato il 17 giugno del 1945 in un agguato teso da una pattuglia dei carabinieri reali,
onorarlo e in veste di capitano dell'E.V.I.S., Concetto Gallo, assunse il nome di Secondo Turri.
Per completezza, in quel tranello, Antonio Canèpa era insieme a due studenti guerriglieri, Carmelo Rosano di 22 anni e Giuseppe Lo Giudice. L'agguato fu teso al bivio
di Randazzo, in prov. di Catania, in contrada Murazzu Ruttu. Un 'Cippu' ricorda il vile attentato.
Concetto Gallo morì nella sua casa, a Catania, il primo aprile del 1980 (alcuni pennivendoli indicano come luogo di morte, la città di Palermo). Quando la famiglia
ci portò la triste notizia, il direttivo del F.N.S. fece di tutto per sensibilizzare le autorità locali affinché il corteo funebre attraversasse la Via Etnea, ricordando
loro che Concetto Gallo era stato eletto deputato del M.I.S. all'Assemblea Costituente assieme ad Andrea Finocchiaro Aprile, Antonio Varvaro e Attilio Castrogiovanni e
deputato nel 1947 alla prima legislatura dell'Assemblea Regionale Siciliana. I responsabili del Comune di Catania, non vollero sentirne, il feretro non poteva passare
per via Etnea, salotto di Catania. Ci rivolgemmo al Prefetto e dopo qualche titubanza e notando che alcuni indipendentisti stavano fremendo, il sentore che potesse
accadere qualcosa di irreparabile (non era lontano il ricordo di un fatto accaduto nel 1944, proprio dentro il Municipio di Catania che prese fuoco dopo una sommossa
popolare), chissà, forse al Prefetto gli venne in mente questo episodio. Curiosità, Concetto Gallo fu accusato di essere uno dei responsabili di quell'incendio ma fu
prosciolto. Pertanto, se prima ci venne negato per disposizioni comunali e per motivi di sicurezza, ora si era più cauti e il Prefetto autorizzò il passaggio per via
Etnea, della bara portata a spalla. Si arrivò ad un compromesso. Il feretro transitò per via Etnea, zona piazza Stesicoro, via Antonino di San Giuliano, zona circoscritta
perché Concetto Gallo abitava in una traversina della 'salita' San Giuliano. Il corteo era formato da tantissima gente con le bandiere dell'E.V.I.S. e alcune bardate a lutto.
Ma la Sicilia non è solo Catania. Molti aderirono al movimento indipendentista anche nella parte occidentale dell'Isola, proprio dalle parti di Salvatore Giuliano.
Uno di questi è stato Franco (Frank) Mannino.
Io non presi parte a quell’eccidio ma appartenevo alla banda di Salvatore Giuliano, ha affermato Mannino nel corso di una intervista.
Turiddu lo conoscevo sin dall’infanzia essendo entrambi del paesino di Montelepre. Lui aveva solo un anno più di me. Nel 1942, all’età di 19 anni, mentre era in
corso la seconda guerra mondiale, fui chiamato alle armi. Nel 1945, l’anno in cui finì la seconda guerra mondiale, entrai a far parte del IV gruppo dell’Esercito
Volontario per l’Indipendenza della Sicilia (E.V.I.S.). Salvatore Giuliano, già ricercato dalla polizia, era stato incaricato ad assumere il comando del nostro gruppo.
Ciò che ci univa era l’amore per la nostra terra e per la nostra gente. Ce l’avevamo con quelle che a nostro avviso erano ingiustizie.
Abbracciai dunque la causa della banda Giuliano: separare la Sicilia dall’Italia e annetterla, come 49° stato, agli Stati Uniti d’America. C’era motivo di
credere che questo fosse possibile? Sì senz’altro, continuando il suo racconto, poiché funzionari del M.I.S. ci avevano assicurato di avere strette relazioni con il
governo di Washington e che il presidente degli Stati Uniti, Harry S. Truman, era favorevole all’annessione.
Il mio gruppo aveva soprattutto il compito di effettuare sequestri di persone importanti, per chiedere poi un riscatto. In questo modo ci procuravamo i fondi
per comprare le cose di cui avevamo bisogno. A nessuno dei sequestrati, che chiamavamo nostri “ospiti”, fu mai fatto del male. Quando li rimettevamo in libertà,
davamo loro una ricevuta da usare per ottenere il rimborso del denaro del riscatto che ci era stato pagato. Veniva detto loro che avrebbero potuto usarla per riavere il
denaro dopo la nostra vittoria.
Partecipai a una ventina di rapimenti, oltre che ad assalti armati alle caserme dei carabinieri. Ma con sollievo posso dire di non aver mai ucciso nessuno. I nostri
violenti sforzi separatisti culminarono nella sconsiderata azione di Portella della Ginestra. Anche se quella strage di gente comune non era stata premeditata, la
popolazione che prima si sentiva protetta e ci sosteneva ora si considerò tradita da noi. Da quel momento la caccia ai componenti della banda Giuliano fu spietata.
Molti miei compagni furono arrestati in seguito a “soffiate”. Anch’io caddi in una trappola e il 19 marzo 1950 venni catturato. Quell’estate lo stesso Giuliano
fu ucciso.
Mi portarono nel carcere giudiziario di Palermo in attesa di processo. Finalmente, nel 1951 ebbe inizio a Viterbo il mio processo. Durò 13 mesi e fui condannato
a due ergastoli, nonché a 302 anni di reclusione! Sarei uscito dal carcere solo da morto. Fui riportato nel carcere di Palermo e lì restai fino all’estate del 1957.
A causa di un alterco col cappellano del carcere, fui trasferito da Palermo allo stabilimento penale di Porto Azzurro, sull’isola d’Elba, carcere che allora aveva
una triste fama. Al mio arrivo fui messo in cella di rigore e vi rimasi per 18 giorni. Trascorsi più di 10 anni in quel carcere, poi, nel 1968 fui trasferito in quello
di Fossombrone, in provincia di Pesaro. Lavoravo in infermeria. L’anno seguente fui trasferito nel carcere dell’isola di Procida, di fronte a Napoli. La buona condotta
mi consentì di lavorare nuovamente nell’infermeria. In quel periodo mi furono accordati vari permessi d’uscita dal carcere e nel frattempo mi fu suggerito di presentare
istanza per ottenere la libertà. Il magistrato di sorveglianza, nel suo rapporto favorevole all’accettazione della mia domanda, scrisse su di me: “Lo si può
affermare senza possibilità di smentita: il Mannino di oggi, rispetto al giovane sanguinario esecutore degli ordini del bandito Giuliano, è un altro uomo: è del tutto
irriconoscibile”. Dopo non molto le autorità carcerarie di Procida chiesero la grazia per me. La grazia fu infine concessa e il 28 dicembre 1978 fui scarcerato.
Che gioia essere libero, dopo oltre 28 anni di reclusione!
CONTINUA...
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