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Francesco Lanza era il quarto di sette fratelli. Il padre Giuseppe, avvocato, era stato sindaco di Valguarnera dal 1879 al 1881, la madre si chiamava Rosaria Berrittella. Forte era l'attaccamento
alla famiglia, religiosissima, di stampo patriarcale, affettuosamente presieduta dal nonno materno, un burbero e bonario medico all'antica, tipico pater familias. Il Lanza dedica commosse pagine di prosa
ai ricordi d'infanzia e descrive le care abitudini della sua famiglia. Da queste pagine traspaiono la dolcezza della mamma Rosaria e la soavità della
nonna. La burbera ma buona zia, la affaccendata domestica, i gravi discorsi tra il nonno e il papà, il gioco dei garzoni, conferiscono coralità alla scena. Le descrizioni non offrono solo una documentazione
biografica lanziana, ma presentano costumi di vita siciliana che, ancora oggi, felicemente sopravvivono in alcune famiglie dell'Isola.
Studente al liceo ginnasio Spedalieri di Catania, autore di teatro, di reportages, di racconti, di un romanzo, fu scrittore
di finissima sensibilità, attento ai sapori della propria terra, interprete di una sicilianità senza tempo, elegante nella sua schiettezza, da mettere accanto a Pirandello tra i capostipiti di Tomasi di Lampedusa e
Sciascia.
Conseguita nel 1915 la licenza liceale a Catania si trasferì a Roma (fu redattore del "Popolo di Roma) per studiare giurisprudenza. Ma la vera vocazione erano gli studi umanistici, base preziosa per la futura attività letteraria.
Partecipò come ufficiale di artiglieria alla I guerra mondiale e contrasse la febbre spagnola che lo segnò per la vita e lo costrinse a trascorrere una lunga convalescenza a Valguarnera,
dove si dedicò intensamente alla lettura e alla stesura dei suoi primi scritti, tra cui i tre atti della farsa «Il Vendicatore». Si laureò in giurisprudenza a Catania nel 1922, e qui incontrò Giuseppe
Lombardo Radice che gli propose di collaborare ad un «Almanacco per il popolo siciliano».
Le opere del Lanza sono: la favola drammatica «Fiordispina»; le corrispondenze «Itinerari di Sicilia» al giornale «Il Tevere» e la intensa collaborazione ad altri giornali come «L'Italia Letteraria», «Il Resto del Carlino», «La Fiera Letteraria», «La Gazzetta
del Popolo» con i resoconti dei viaggi in Ungheria, Romania, Polonia e Russia.
Durante un suo soggiorno in Tripolitania concepì i «Mimi arabi».
Nel 1923 collaborò con i più quotati giornali dell'epoca, dal «Corriere Italiano» di Roma allo «Ambrosiano»
di Milano, ecc. Sulla «Fiera Letteraria» pubblicò, nel 1925, con il primo titolo di "Storie di Nino Scardino", quei "Mimi Siciliani" che sono un piccolo gioiello della letteratura italiana, anche se,
purtroppo, poco conosciuti.
A Enna, nel dicembre del 1927, Lanza fondò il "Lunario siciliano", un periodico mensile al quale collaborarono autorevoli letterati del tempo come G. Centorbi, A. Navarria, E. Cecchi,
R. Bacchelli, T. Interlandi. Il giornale nel 1929, per motivi economici, fu trasferito a Roma, in via della Mercede 9, l'allora redazione de "Il Tevere", ma subì una seconda interruzione, qui,
oltre ai collaboratori già citati si registrarono le firme di Ardengo Soffici, Silvio D'Amico, Giuseppe Ungaretti, Elio Vittorini, Vitaliano Brancati, Corrado Sofia, Enrico Falqui, Stefano Landi,
Luigi Pirandello. Ritornò infine alle stampe nell'aprile del 1931 a Messina, sotto la direzione di Stefano Bottari (vi collaborò, fra gli altri, il poeta dialettale Alessio Di Giovanni), in assenza
del Lanza ammalato a Valguarnera. Con il Lunario siciliano, pensava di pubblicare un periodico trimestrale per il popolo con leggende, poesie, proverbi e notizie utili di agricoltura, commerciali e di vario genere.
Si trattava dei sogni di un poeta in quanto il Lunario, pur avendo consensi e prestigiose collaborazioni, ebbe vita breve e incostante, ne vennero pubblicati solo tre numeri prima della sua definitiva cessazione.
I redattori di questa rivista di letteratura popolare avevano assunto come motivo ispiratore la fedeltà all'insegnamento verghiano e del Pitrè.
Un grande autore non si riassume in poche righe, ma i suoi ritratti di ambiente (I Mimi siciliani) hanno la grazia fulminante delle antiche bucoliche: qualcosa che sta tra la satira, il sogno campestre, l'ingenuità paesana, la malizia erotica. E lo stile è così limpido, così depurato da compiacimenti
retorici, che lo intende anche un bambino. Dietro c'è l'amore per la propria terra, la capacità di coglierne i tratti dolenti o sorridenti con una sola riga. La validità della sua opera fu riconosciuta unanimemente in Italia: il meglio dei suoi scritti, già pubblicato per i tipi delle edizioni Alpes, fu raccolto dall’editore Sansoni; I “Mimi” furono ristampati, con prefazione di Italo Calvino, dalla Casa Editrice Esse.
La critica più autorevole, da Falqui, a Soffici, a Sciascia, riconobbe senza riserve il talento dello scrittore valguarnerese, e i suoi amici, letterati e non, ne conservano religiosamente il ricordo. Morì mentre la sua vena buttava forte, mentre si preparava a scrivere un delizioso romanzo evocativo, di cui protagonista
sarebbe stata la mamma giovinetta, per cui egli aveva nutrito sempre una religiosa devozione.
Fonte del materiale:
Distrutto moralmente dalla morte della madre (1931) e dalle difficoltà economiche e fisicamente dall'indebolimento causatogli dalla malattia, si ammalò
gravemente mentre si recava a Roma per essere assunto al Ministero dell'Aeronautica. Riportato a Valguarnera, morì il 6 gennaio 1933.
LA VITA COME SPERANZA di Maria Rina Virzì Lanza
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