|
Federico De Roberto visse quasi sempre a Catania collaborando a giornali e a riviste; fu uno dei più fedeli amici del Verga di cui raccolse gli inediti. Partecipò attivamente al movimento verista accanto al Capuana e al Verga, il quale ultimo influì fortemente sulla sua educazione letteraria, determinandola in senso
regionale e realista; ma sulla sua opera hanno agito pure con notevole forza i modelli della narrativa francese contemporanea, da Flaubert a Bourget, da cui egli ereditò un gusto intellettualistico per le complicazioni psicologiche.
Soprattutto le sue prime opere risentono dei modelli francesi e della poetica verista dell'impassibilità di fronte ai documenti
sentimentali offerti dai personaggi. Con Ermanno Raeli De Roberto iniziò un primo esame di quella società aristocratica siciliana che doveva essere il tema
fondamentale delle sue opere maggiori: e anche se troppo scenografiche sono le complicazioni sentimentali, e lo stile è ancora piuttosto involuto
e prolisso, tuttavia un certo sfondo dell'aristocrazia palermitana è descritto con una curiosa e accanita acutezza che trova i suoi momenti più
intensi nella rappresentazione dell'urto tragico delle illusioni e dei sentimenti contro la realtà e le situazioni obiettive, e anche contro una
certa incapacità interiore di superare lo shock della scoperta dell'ostilità del mondo e della società alle speranze e ai sogni
individuali. Qui, e nel successivo romanzo L'illusione (Milano, 1891), venuto dopo i racconti di Processi verbali (Milano, 1890) e
de L'albero della scienza (Milano, 1890), nel quale il fallimento è visto dalla parte di una donna e della sua fondamentale esperienza
d'amore, si rivela il duplice volto della narrativa di De Roberto, quell'ambiguità che dà un fascino profondo anche alle opere meno riuscite:
la compresenza dell'impassibilità naturalista, che convoglia perfino i motivi positivisti dell'ereditarietà, e che giunge fino alla freddezza
dell'estraneità assoluta del racconto, e di una passione un po' torbida e insistente per la psicologia malata, per le contraddizioni, le
contorsioni, gli inganni interiori, la doppiezza dei gesti e dei sentimenti, unita con un tetro e sontuoso gusto della morte (e De Roberto
si apparenta così decisamente con motivi e ragioni della narrativa decadente). Tuttavia solo con il grande romanzo I Viceré (Milano,
1894) De Roberto è giunto a realizzare compiutamente un suo mondo poetico: l'aristocrazia siciliana, orgogliosa, gelosa dei suoi privilegi, assetata
di denaro e di potere, chiusa in cupi egoismi e in sfrenate passioni, descritta con un acre gusto ironico, che giunge nei momenti più felici a
un realismo epico, grandioso e crudo, non privo di inflessioni grottesche, nel quale, tuttavia, è sempre presente l'altra faccia della compiacenza
sottile per le malattie dell'anima e del corpo e per la morte. L'intenzione verghiana di costruire un ciclo di romanzi che avrebbe dovuto
rappresentare la vita dell'uomo nelle diverse condizioni sociali, rimasta interrotta prima di giungere alla rappresentazione della società
aristocratica, si attua nel romanzo di De Roberto che segna uno degli esiti più alti della narrativa italiana fra Ottocento e Novecento.
La continuazione dei Viceré, contenuta nell'altro ampio romanzo L'imperio (postumo, Milano, 1928) riesce meno persuasiva: le
vicende di don Consalvo Uzeda, che eletto deputato, approfittando del fascino del suo nome e della sua ricchezza, riesce a conquistare un posto
preminente nella vita politica italiana e a diventare ministro, si svolge sullo sfondo di una Roma post-risorgimentale (siamo nel periodo del governo
di Crispi), chiusa in una trama sconfortante di azioni vili, piccole, irritanti, compiute da uomini meschini e insinceri, tesi soltanto al
proprio interesse, privi di passioni e di ideali. E se lo spunto satirico riaffiora a tratti in vivaci quadri della vita parlamentare e
giornalistica e della società romana, il tono di fondo è scorato, amaro, sempre più disperato parallelamente col trionfo degli opportunisti e dei
profittatori e con la rovina dei pochi spiriti sinceri e onesti. Tutte le altre opere di De Roberto restano su un piano inferiore a quello dei romanzi principali,
squilibrate come sono dal gusto per le complicazioni psicologiche o dalle tentazioni documentarie che si traducono in un discorso minuzioso e un po'
grigio, nella costruzione del quale la ricerca di stile sempre tenacemente perseguita si riduce a un lavoro un po' gratuito e a un fraseggio arido e faticoso: La sorte (Milano, 1887) e Documenti umani (Milano, 1888),La morte dell'amore (Napoli, 1892); Spasimo (Milano,1897). Gli amori (Milano, 1898); Come siamo
(Torino, 1901); La messa di nozze (Milano, 1908); Al rombo del cannone (Milano, 1918), mediocri bozzetti ispirati alla prima guerra
mondiale; Ironie (Milano 1920); Le donne e i cavalier (Milano, 1923). Critico assai fine per penetrazione psicologica, De
Roberto ha scritto un saggio su Leopardi (Milano 1898) e un'opera su Verga (Casa Verga, Firenze, 1966) assai notevole ma rimasta
incompiuta; inoltre ha pubblicato i volumi di saggi: Arabeschi (Catania, 1883); L'amore (Milano, 1895) tipica ricerca psicologica
e fisiologica sull'amore, nel gusto positivistico. Una pagina di storia
dell'amore (Milano, 1898); Il colore del tempo (Palermo, 1900);
L'arte (Torino, 1901); Catania (Bergamo 1907); Randazzo e
la valle dell'Alcantara (ivi, 1909); All'ombra dell'ulivo
(Milano, 1920). Inoltre compose alcune opere teatrali: Il cane della
favola (1912); La lupa (in collaborazione col Verga, Noto,
1932); Il rosario (1940). Dei figli di Teresa, Raimondo, il prediletto, ha
sposato per volere della madre, Matilde, figlia di un barone di recente
nobiltà ma assai ricco, e vive quasi sempre a Firenze, disinteressandosi
completamente degli affari, e concedendo così all'abile e avido fratello
primogenito Giacomo di spogliarlo a poco a poco della sua parte di
eredità. Finisce per rovinarsi quando, stanco della moglie, da cui pure ha
avuto due figlie, riesce con cavilli giuridici a far annullare il suo
matrimonio per sposare Isabella Fersa, di cui si é incapricciato, ma che
ben presto prende a odiare non meno della prima moglie. Giacomo, il
primogenito e capo della famiglia, assomma in sé tutte le virtù e i
difetti degli Uzeda: borbonico, dopo l'unità sa sfruttare l'ascendente
dello zio liberale per avere vantaggi nell'acquisto dei beni conventuali,
spoglia abilmente le sorelle e il fratello Raimondo, riuscendo infine a
raccogliere nelle sue mani tutti i beni della famiglia accresciuti con una
spietata avarizia. Lodovico, costretto anch'egli a farsi frate, con una
grande affettazione di virtù e con sapienti arti diplomatiche, fatte in
gran parte di ipocrisia, si conquista un posto eminente nel clero
cittadino, e finisce a Roma prima vescovo, poi cardinale. Privo di ogni
senso pratico, quasi scemo è invece Ferdinando, che si adatta a vivere,
tutto preso da sogni di avventure, in un suo piccolo podere, dove muore in
assoluta miseria.
Uno sguardo a "I VICERE'"
- Il romanzo narra, sullo
sfondo delle vicende storiche risorgimentali e post-risorgimentali, dal
1850 al 1880, le vicende della famiglia Uzeda di Francalanza, di origine
spagnola, soprannominata i Viceré a ricordo degli antenati che
ebbero quella carica durante il dominio spagnolo. Il libro si apre con la
morte della vecchia principessa Teresa, crudele e dispotica; intorno al
suo testamento nascono le interminabili liti dei figli e dei parenti, e
soprattutto fra il primogenito Giacomo e il fratello minore Raimondo, che
la morta ha, contro la tradizione, equiparato nell'eredità dei beni di
famiglia. Dei vari membri della famiglia Uzeda il romanzo segue fedelmente
a passo a passo le vicende: anzitutto quelle dei fratelli cadetti del
defunto principe Consalvo marito di Teresa. Gaspare, duca d'Oragua,
contrariamente al resto della famiglia, strettamente legata ai Borboni, ha
tendenze liberali; durante la rivoluzione del 1848 non é rimasto
insensibile alla causa degli insorti, pur sapendosene ritrarre a tempo al
momento della reazione borbonica. Lo stesso atteggiamento ambiguo in
equilibrio fra l'ossequio ai Borboni e le cospirazioni liberali il duca
tiene fino al 1860, quando diventa l'autorità politica più importante di Catania, riuscendo a farsi eleggere
per numerose legislature al parlamento italiano: approfittando della sua
posizione e curando più i suoi interessi che quelli degli elettori
conquista gloria e ricchezza di cui, come tutti gli Uzeda, si rivela
particolarmente avido; e infine viene nominato senatore. Don Blasco,
fratello di Gaspare, é stato costretto a farsi frate, ma nel convento
aristocratico di S. Nicola, dove gode della massima libertà: violento,
litigioso, donnaiolo, don Blasco è uno dei più felici personaggi creati da
De Roberto, che lo descrive con un tono di grandiosa epicità che a tratti
sfiora il grottesco. Privo di ogni vocazione religiosa, in perpetua lite
con i parenti ma curioso dei loro affari fino all'ossessione,
bestemmiatore e goloso, quando i conventi vengono soppressi ed egli é
ridotto allo stato laicale, pur essendo stato uno dei più accaniti
difensori dei Borboni e dei diritti della Chiesa, non esita a comprare i
beni conventuali e speculando con i titoli di stato, si conquista
un'immensa ricchezza. Il cavaliere don Eugenio rimane il più povero dei
fratelli: scacciato dalla corte di Napoli per irregolarità amministrative,
si riduce a vivere di espedienti, senza potersi mai sollevare dalla
miseria, neppure quando riesce a far pubblicare la sua grande opera
araldica L'araldo siculo. La sorella Ferdinanda, rimasta zitella
per volontà della madre, esercitando l'usura riesce a poco a poco a
raccogliere un ingente patrimonio, senza cessare mai di occuparsi degli
affari di famiglia in difesa della sua unità e delle tradizioni
aristocratiche, irriducibile nella sua avversione ai liberali e nelle sue
nostalgie borboniche.
Delle due figlie di Teresa, Chiara ha
sposato contro la sua volontà, costretta dalla madre, il marchese di
Villardita, del quale finisce con l'innamorarsi follemente, finché, dopo
anni di perfetto accordo, non litiga e si separa da lui in modo non meno
ingiustificato di quello che l'aveva portata ad amarlo. Lucrezia invece
contro la volontà dei parenti riesce a sposare un avvocato, Giulente, non
nobile, che ben presto incomincia a odiare per la sua incapacità a
conquistarsi una posizione, per quanto fervente liberale, e per la sua
umile nascita, finché dopo uno scacco elettorale di lui, non ricomincia ad
amarlo.
Tutta la seconda parte del romanzo si incentra sulla vicenda
dei due figli di Giacomo, Consalvo e Teresa. Consalvo, educato nel
convento di S. Nicola, ha i primi contrasti col padre per la vita
scioperata che conduce in città; poi, dopo aver compiuto un viaggio per
l'Europa e per l'Italia, si converte a uno studio e a un lavoro ostinato,
con l'intenzione di conquistare una fama non solo regionale, ma almeno
nazionale. Freddo calcolatore, abile nel servirsi delle idee per i suoi
finì, ottimo oratore, giovanissimo diventa sindaco di Catania, poi,
convertendosi alle idee della sinistra storica, riesce a farsi eleggere
deputato. Il suo contrasto col padre giunge a eccessi violenti, tanto che
Consalvo finisce per essere, almeno in parte diseredato. Teresa,
bellissima ma ostinata in un suo ideale di perfezione e di santità, in
contrasto con i suoi stessi sentimenti, sposa il cugino Michele Radalì che
non ama, mentre ama invece il cognato Giovannino, alla cui passione non
cederà però mai, pur senza mai deluderla, finendo per trascinare l'uomo
alla pazzia e al suicidio. La descrizione mirabile dell'ambiente
aristocratico catanese, la creazione di una galleria di personaggi avidi,
crudeli, violenti, illuminati con potente caratterizzazione
psicologica, fanno di questa storia di una famiglia uno dei libri
fondamentali della letteratura italiana fra '800 e '900.
Fonte: Grande dizionario enciclopedico UTET
CSSSS
© Centro Studi Storico-Sociali Siciliani Catania