Una domanda alla
quale la maggior parte dei catanesi non saprebbe rispondere è quella relativa alla origine del nome Liotru o Diotru, che dir si voglia, attribuito da
antichissimi tempi all'elefante di pietra lavica che adorna la monumentale fontana di Piazza Duomo. Perché mai, dunque, il vetusto pachiderma, elevato al massimo onore
di simbolo della Città, viene indicato, ancora oggi, con tale nome? Gli storici riferiscono che esso esercitò sempre nella fantasia del popolo uno strano e misterioso
senso di suggestione. Anzi, la più attendibile tradizione, lo fa ritenere, originariamente, oggetto di culto in un tempio di riti orientali della Città. Precipitato
dal suo altare ai primordi del Cristianesimo, venne portato fuori le mura, dove rimase per più secoli. Chi tentò, invano, di conservare al vetusto idolo gli onori di
un tempo, fu, nella seconda metà dell'VIII secolo, un famosissimo mago: Eliodoro, altrimenti detto Diodoro, Liodoro, Lidoro, ed anche Teodoro. Egli, con i suoi
incantesimi (...vir magica arte imbutus, miranda prestigiorum machinatione...), secondo la leggenda, tramutava gli uomini in bestie e faceva apparire le cose
lontane improvvisamente presenti.
Essendosi, però, burlato anche degli esponenti della Città, questi decisero di condannarlo a morte. Ma, inutilmente, giacché egli,
grazie ai suoi diabolici poteri, riuscì a scampare dalle mani del carnefice: si fece portare velocemente dagli Spiriti per aria in Costantinopoli e, con la stessa
celerità, restituire in Catania. Ingannato dal prodigio, il popolo gli tributò onori quasi divini, che ottennero l'effetto di renderlo ancor più temerario.
Di
Eliodoro o Teodoro (...Theodorus, aspectu deformis, natione Iudaeus e post Simonem magum nulli in arte magica secundus...) la tradizione popolare ha tramandato
il ricordo di altri mirabolanti fatti.
Una volta, per esempio, vuolsi che egli offrisse ad un giovinetto un velocissimo cavallo, per fargli ottenere la palma nei
giochi circensi. Ma, dopo la vittoria, il destriero disparve, non essendo che un demonio in quelle sembianze.
Eliodoro venne per tale ragione condotto in carcere,
ma, anche questa volta, riuscì a riguadagnare la libertà, corrompendo le guardie mediante l'offerta di tre false libbre d'oro: una grossa pietra, cioè, dall'apparenza
d'oro, che poco dopo, riacquistò la sua forma naturale.
Tale frode non fu la sola che egli commise: alla stessa maniera si videro portar via tanta roba molti
venditori della città.
Reso edotto dei gravissimi e continui fatti che turbavano la quiete dei catanesi, l'imperatore Costantino decise allora di far partire per
Catania il suo ministro Eraclio, con l'incarico specifico di condurgli il mistificatore. Ma, quando Eraclio giunse alla mèta ed inviò i suoi armati per arrestare il
mago, questi, con i suoi tanti raggiri, li indusse a prendere un bagno: -"Andiamo, dunque, al bagno - disse loro - affinchè ritorniate alle navi con forze rinnovate".
Appena i soldati si immersero nell'acqua avvenne un altro grande prodigio: tutti quanti, lui compreso, si trovarono istantaneamente a Costantinopoli, nel bagno
dell'Imperatore.
Condannato a morte da Costantino, nel momento in cui stava per eseguirsi la sentenza, egli domandò in grazia una catinella d'acqua: vi tuffò la
testa e sparì misteriosamente, dicendo: - " Chi mi vuole, mi cerchi in Catania! ".
Al colmo del furore, l'Imperatore ordinò allora ad Eraclio di ripartire subito,
affinchè, con ogni mezzo, riacciuffasse il prigioniero. Ritrovato, quest'ultimo non oppose alcuna resistenza: docile e silenzioso, s'imbarcò, insieme all'inviato
dell'Imperatore, su di una nave, da lui stesso costruita per via d'incantesimi, la quale, in un giorno e senza aiuto di remi, li trasportò a Costantinopoli, svanendo
subito, appena approdata.
Avvertita dell'arrivo, la moglie di Eraclio mosse, ansiosa, ad incontrarlo, ma, quando scorse l'infame mago, accesa di sdegno, lo
apostrofò:- " Uomicciolo sporchissimo, tu sei quello che hai fatto viaggiare mio marito in Sicilia con tanto travaglio?! ". E in ciò dire gli sputò in faccia.
Eliodoro ebbe un ghigno satanico: - "Ti farò ben presto pentire di avermi ingiuriato, e con tua somma vergogna!" - la minacciò. E mantenne, infatti la promessa:
in quel momento stesso, in tutta la città e vicinanze, per un raggio di oltre venti miglia, si estinse ogni fuoco, senza che alcuno riuscisse a ottenere nemmeno una
scintilla. La confusione, come è da immaginarsi, fu enorme, ma grande fu altresì la meraviglia, quando si vide il fuoco generato solo dalle parti posteriori della
moglie di Eraclio. Per tre giorni consecutivi, fu d'uopo che essa rimanesse nella pubblica piazza, affinchè ognuno si provvedesse della necessaria fiamma. Nuovamente
ricondotto dinanzi al carnefice, Eliodoro, mentre stava per ricevere il colpo di grazia, si rese straordinariamente piccolo: entrò per la manica destra del carnefice
e ne uscì dall'altra, gridando: " Scampai la prima volta; questa è la seconda. Se mi volete, cercatemi a Catania! ". E disparve ancora, facendosi trasportare dagli
spiriti nella inquieta città.
Ma a liberare quest'ultima dai suoi sortilegi, accorse, finalmente, il vescovo Leone detto il Taumaturgo (...sed tandem à Leone
Catanensi Episcopo divina virtute ex improviso captus, frequenti in media Urbe populo, in fornacem igneam injextus, incendio consumptus est...).
Egli, infatti,
dopo avere effettuata la distruzione del tempio consacrato alle due grandi divinità muliebri, Demetra e Cora, fino a quei tempi tanto venerate a Catania, decise di
stroncare definitivamente la magìa giudaica di cui era esponente Eliodoro. Convocati perciò i fedeli nelle vicinanze delle Terme Achillee, dinanzi alla cappelletta
eretta in onore di Maria Vergine, celebrò una solenne messa propiziatoria.
Si vuole che, oltre a molti Giudei e Gentili, si mischiasse tra la folla anche il
temerario Eliodoro, il quale si mise a disturbare il sacro rito in tutti i modi: ingombrando la mente dei fedeli con allucinanti visioni; facendo apparire i calvi
improvvisamente capelluti, e viceversa; altri con corna di cervo, di bue, di caprone, oppure con orecchie d'asino, con barba di montone, con rostro di uccello, con
denti di cinghiale e altre stravaganti sembianze, in modo da generare il riso. Per ultimo, pretese di provocare il santo vescovo al ballo. Ma le sue nefande arti a
ciò non valsero: terminata la messa, San Leone gli si avvicinò e gli gettò al collo la stola: "... Per Christum Dominum meum, nihil hic valebunt magicae artes tuae:
deduxitque ad locum, cui nomen Achilleus, ibique flammis ad urendum dedit. Nec manum tuam, quae illaesa cum orario, mansit, ante subduxit, quam miser ille in cineres
redigeretur. Sic itaque mos vir factissimus praesenti ope ab illius importunissimi magi periculis eripuit". Eliodoro, infatti, così esorcizzato, venne da S. Leone
attratto nell'ardente fornace approntata in una fossa vicina alla chiesa. E mentre il Santo "...se ne uscì illeso, senza che il fuoco bruciasse, nè denigrasse la stola
e le vesti ", il mago divenne un mucchio di cenere, in men che non si dica. Il giusto castigo inflitto a Eliodoro è ricordato, ancora oggi, da due piccole tele che si
conservano, rispettivamente, nella sacristia della Cattedrale e nel nostro Museo Civico (sala 28, terzo scomparto): la prima, dovuta al pittore trapanese Vincenzo
Errante (sec. XIX); la seconda, proveniente dal monastero dei Benedettini, attribuita, da taluni, a Giuseppe Patania (pittore palermitano della fine del Settecento -
inizio dell'Ottocento), da altri, al Velasques siciliano.
Quanto all'elefante che - sempre secondo la tradizione popolare - aveva servito ai prestigi del mago, quale
portentosa cavalcatura per i suoi rapidissimi viaggi da Catania a Costantinopoli e viceversa, dopo essere stato lungamente dimenticato, venne ricondotto in città dai
padri Benedettini del monastero di S. Agata e posto ad adornare un antico arco o porta, detta, appunto, "di Liodoro" o "di lu Liòduro".
Nel 1508, però, essendo
stato completato il vecchio Palazzo di Città, la porta predetta, che si trovava alla sua destra, venne abbattuta e l'elefante posto sull'alto del prospetto della parte
nuova dell'edificio, a settentrione, quale glorioso emblema della città, con la seguente iscrizione: Ferdinandus. Hispaniae utriusque. Siciliae. Rege - Elephans
erectus fuit a Cesare Jojenio - Justitiario - MDVII
Dopo il terremoto del 1693, l'elefante giacque ancora in abbandono, finchè, nel 1727, l'olandese Filippo
d'Orville, trovandosi di passaggio da Catania, sollecitò che esso venisse riinnalzato, insieme all'obelisco egizio che adesso lo sormonta. Il voto si compiva nel 1736,
ad opera di Giambattista Vaccarini, il quale, con la visione berniniana di Piazza della Minerva di Roma dinnanzi agli occhi, realizzò con essi la monumentale fontana di
Piazza del Duomo
Una iscrizione, a tergo del monumento, ricorda ai catanesi: " D.O.M. - Vetus Catanae insigne - elephas - ab aequitate prudentia docilitate - Urbem
clarissimam eiusque cives - commendat - hoc ut lateret neminem eiusdem - ex aetneo lapide simulacrum - Heliodori olim praestigys celebre - S.P.Q.C. - Docto oneri
substratum voluit - Anno MDCCXXXVI".
Oggetto di frizzi e motti, non sempre benevoli, fin da quando gli venne assegnato l'attuale posto, al "Diotru" o "Liotru",
ancora ai tempi nostri, i poeti dialettali della città rivolgono invocazioni e preghiere di un genere tutt'affatto differente da quello usato ai tempi del mago
Eliodoro; Come queste del popolare poeta Francesco Buccheri Boley:
Lu Diotru di lu Chianu
Lu Diotru di lu Chianu com'è misu, veramenti, mi scusati si lu dicu, non mi pari giustamenti!
Lu vurrissi ca guardassi non la nostra Catidrali, ma lu nostru gran Palazzu cusìdittu Cumunali!
Ccu la funcia sò jsata notti e jornu dici a tutti: - Citatinu, fila drittu, si li jammi non vo' rutti!
Sugnu bonu, sugnu caru, ma si viju cosi storti, a cu' sbagghia, ccu 'sta funcia, cci li dugnu...forti forti!.
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Si moru ju, ccu n'autri cent'anni, non vogghiu fattu nuddu monumentu comu si stila ccu li genii granni, pirchí pueta granni non mi sentu!
Voggh'èssiri, precisu, vurricatu sutta la funcia di lu Liafanti: di lu cullega miu malasurtatu, pri ricurdari a tutti li passanti
chi a trenta metri di la Porta Uzeda, all'umbra di 'sta funcia prizziusa, riposa un mudistissimu pueta ch'à datu corpa a tutti, a la rinfusa. |
In conclusione: astraendo dalla leggenda, nella figura di Eliodoro si può anche vedere l'ultimo sprazzo di quel pensiero filosofico che nella nuova dottrina ravvisava i germi che furono causa del decadimento delle antiche virtù. E se, come si crede, l'elefante, rovesciato fuori la cinta delle mura, continuò a essere oggetto di culto da parte degli abitanti del bosco, assurgendo a simbolo della restaurazione dell'antico pensiero religioso tentata da Eliodoro, non v'è dubbio che fra quest'ultimo e le ancora paganeggianti popolazioni si sia stabilita quella corrente spirituale comune per la quale il popolo, scomparso Eliodoro, continuò a ricordarne il nome in quello che fu l'emblema della vecchia fede: il "Liotru".
Fonte: Salvatore Lo Presti - Fatti e Leggende Catanesi - Edizione SEM Catania 1938.
Altre informazioni si trovano sulla rivista "JU, SICILIA" organo ufficiale del Centro Studi Storico-Sociali Siciliani.
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