Autodidatta, fece molti mestieri: garzone di macellaio,
salumiere, grossista in alimentari, rappresentante di commercio. Il 15 ottobre
1922, alla vigilia della "marcia su Roma" capeggiò nel suo paese una sommossa
popolare. Nello stesso anno fondò il circolo di cultura "Filippo Turati", che
settimanalmente pubblicava il foglio "La povera gente". Fino al 1928 fu
condirettore del mensile palermitano di letteratura dialettale "La Trazzera",
soppresso dal fascismo.
Dopo aver pubblicato Sintimintali (1923) (molte liriche con prefazione di Giuseppe Pipitone Federico, scrittore, letterato e critico letterario morto quando
Buttitta aveva 41 anni. Insegnò storia e geografia nella Scuola normale maschile e successivamente letteratura italiana presso la R. Università di Palermo) e il
poemetto in lingua siciliana Marabedda (1928) il poeta ufficialmente tacque, ma le sue poesie continuarono a circolare clandestinamente. La sua prima poesia
antifascista fu pubblicata, nel 1944, sul secondo numero di "Rinascita". Solo nel 1954, con Lu pani si chiama pani, Buttitta ricominciò a pubblicare le sue
opere, che gli diedero fama internazionale.
Nel 1943 Bagheria era stata bombardata e Buttitta, per allontanare la famiglia dai pericoli della guerra, - moglie e quattro figli, di cui uno,
Antonino, morto a il 2 febbraio 2017 a Palermo, è stato un famoso scrittore e insegnante di Antropologia alla Facoltà di Lettere dell'Università di Palermo, in qualità
di studioso delle tradizioni popolari siciliane; e un altro, Pietro Antonio, morto il 14 agosto 1994 a Bagheria- si trasferì a Codogno (Milano). Ritenne di poter
tornare da solo in Sicilia, ma lo sbarco degli Alleati gli impedì di attraversare lo stretto di Messina. Durante la permanenza in Lombardia, Buttitta partecipò alla
lotta clandestina e venne arrestato due volte dai fascisti. Quando, dopo la Liberazione, tornò in Sicilia, trovò i suoi magazzini di generi alimentari saccheggiati.
Per vivere (aveva già i quattro figli) fu costretto a ritornare in Lombardia e a intraprendere l'attività di rappresentante di commercio. Questo fu un importante
periodo di approfondimento per il poeta, che potè incontrare e frequentare quasi ogni sera Quasimodo e Vittorini. Nel 1960 si stabilisce definitivamente a Bagheria
fino al 5 aprile 1997 data della sua morte, nella casa affacciata sul mare di Aspra.
Da: Il poeta in piazza
Vittorini raccontava di quando lui e Mezio, giovanissimi, incontrarono per la prima volta Francesco Lanza: alla stazione di Catania, tra un treno e l'altro, in una giornata di stagnante e fosca calura. In prima, ne ebbero una delusione: nel fisico, nel modo di vestire, nel bagaglio che si portava appresso, nel parlare, Lanza non parve loro un poeta. Ma ad un certo punto lo riconobbero e identificarono come tale: e fu quando Lanza, indicando un alberello, disse: "basterebbe che quei rami si muovessero appena..." per dire dell'afa che stavano soffrendo, del desiderio che l'aria si muovesse e che un leggero réfolo desse refrigerio alle persone e alle cose.
Con Ignazio Buttitta non c'era da aspettare: la sua presenza era immediatamente quella del poeta: nel fisico, nello sguardo, nel movimento di togliersi e rimettersi gli occhiali o di portarseli sulla fronte (un movimento che sembrava adeguarsi non ad una esigenza puramente oculistica, ma a un vedere interno, a un rapporto con le cose interiormente scelto, a una collocazione di esse in una prospettiva ad ogni momento inventata e rinnovata); e in tutto quello che diceva, in tutto quello che raccontava, di sè e degli altri, di Bagheria e del mondo, delle cose di ogni giorno, del libro che aveva appena letto, di una conversazione col cocchiere di piazza a Palermo o col grande poeta Mosca, dell'incontro con un vecchio contadino o con un professore o con un mafioso: tutte le cose straordinarie che gli capitavano.
Nel suo raccontare tutto è un'immagine, metafora, ritmo. E procede per sprazzi, per improvvise illuminazioni di particolari, di dettagli; e con iterazioni ugualmente improvvise: ingorghi che doveva far defluire, nodi che si dovevano sciogliere, rappresentazioni del fatto, del personaggio, della cosa da penetrare, da svelare. E se più volte raccontava la stessa cosa, a distanza di giorni o di anni, inalterabilmente si succedevano quelle immagini, quelle metafore, quel ritmo, quelle iterazioni misteriose e sospensive. Perché Buttitta scriveva tutto - o forse, per dirla con Hemingway-, erano le cose che scrivevano Buttitta; e la sua opera propriamente scritta, materialmente scritta - i suoi manoscritti, i suoi libri - non è che una parte del Buttitta scritto che era poi l'intera sua esistenza, l'intera sua esperienza, la sua memoria, i suoi sensi.
E si direbbe che l'avvenimento della scrittura realizzata, del nero su bianco, delle parole sulla carta, sia stato per lui incidentale e fortuito, e quasi una costrizione. Una necessità e una convenienza: perchè la poesia va detta e non costretta su una pagina, sigillata in un libro; comunicata da uomo a uomo, da uomo agli uomini, con la voce, il gesto, lo sguardo, le pause, le sospensioni, il respiro, il registro, il timbro. Platone temeva la scrittura in quanto comunicazione che è scelta, da chiunque è in condizione di acquistare e leggere un libro, e non sceglie, come invece sceglie il discepolo o l'interlocutore colui che comunica oralmente; Ignazio faceva una lettura silenziosa, come se avesse un rapporto possessivo ed esclusivo con la sua poesia, leggendola con la voce che gli diveniva fioca con facilità. Quando gli domandavano la poesia da leggere con gli occhi, con un certo dissappunto, ogni volta diceva: " Anche Elio (Vittorini) voleva prima leggere con gli occhi ", quasi che quello degli occhi sia un modo strano di leggere, poichè la vera lettura è quella che si ascolta, quella che viene dalla voce del poeta, inseparabilmente, unicamente.
Non è che diffidava della scrittura: è che riteneva assolutamente indissolubile da sè, dalla sua vita, dal suo corpo, dalla sua voce, quel raccontare al mondo, quel goderlo e soffrirlo e ribellarsi che è la sua poesia. Da ciò la sua sprezzatura delle regole, codificazioni, e convenzioni grammaticali e ortografiche; la sua invenzione del dialetto siciliano secondo la voce e senza tener conto della maggiore o minore leggibilità che la sua trascrizione offre. Ogni facilitazione alla voce, sembra dica Buttitta; gli occhi, se non chiedono aiuto alla voce, se la sbrighino come possono. D'altra parte, questa è, peculiarmente, la radice popolare e contadina della sua poesia: la poesia che è parola-voce, il poetare che coincide con l'esistere, estemporaneamente e quasi fisiologicamente. Non c'è momento dell'esistenza - il più duro lavoro o il riposo, la gioia o l'affanno, il miele o il fiele, il lutto o la festa - che non possa essere calato in ritmi e rime, liberarsi cioè in un fatto mnemonico, diventare, insomma, pura memoria (la Memoria che era madre alle muse). E perciò la disponibilità di Buttitta, come gli antichi poeti del mondo contadino, come certi poeti estemporanei che ancora sopravvivono nella campagna di Mineo (CT), alle occasioni. Egli spremeva poesia da qualsiasi fatto, da qualsiasi cosa: non, beninteso, in senso propriamente occasionale o celebrativo, ma sempre immediatamente attingendo al più giusto e sicuro sentimento e giudizio, alle proprie convinzioni, ai propri intendimenti.
Non è, come nel Paradoxe di Diderot, la disponibilità di un'anima che "a été formée de l'élément subtil dont notre philosophe remplissait l'espace qui n'est ni pesant, ni léger, ni froid, ni chaud, qui n'affecte aucune forme déterminée, et qui, également susceptible de toutes, n'en conserve aucune", ma, al contrario appunto, di una personalità che considera il mondo tanto fluido da arrenderlo, in ogni momento e in ogni caso, alla propria forma e memoria. La prescrizione flaubertiana - "il poeta deve simpatizzare con tutto e con tutti" - si ha l'impressione, leggendo (ascoltando) le poesie di Buttitta, che si sia effettualmente rovesciata, e che tutto e tutti simpatizzano con lui.
Le radici popolari e contadine della poesia di Buttitta,non
fanno di lui un poeta popolare se non nel senso di poeta che sta dalle parte del
popolo. Anche nelle cose che sembrano più corsive e conviviali, e forse
maggiormente in queste, è convenientemente "difficile": e anzi quanto più
precario e instabile è il punto da cui muove la sua composizione poetica, quanto
più il ritmo e la rima sembrano affrancarlo dalla ragione ed esaltarlo, tanto
più la poesia trova equilibri sottili ed ardui, interne e profonde ragioni. Nei
suoi scritti c'è, alta su tutto, la coscienza: e tutto vi si devolve e confessa
- i sensi, l'impegno, l'ideologia, l'ars poetica, la parola stessa. E senza
assoluzione.
Leonardo Sciascia
Ignazio è il più famoso poeta siciliano contemporaneo, il solo ad essere conosciuto all'estero, tanto conosciuto che si è perfino parlato di Nobel. I suoi libri si vendono in misura decisamente superiore a quelli di Montale, i suoi recitals erano gremitissimi, frequenti gli inviti in TV. È un fatto nuovo per la poesia siciliana, che non aveva conosciuto mai una simile popolarità, neanche quando i suoi poeti si chiamavano Veneziano e Meli, Tempio e Scimonelli, Di Giovanni e Martoglio; è un fatto che si deve a lui, a Ignazio, che ha saputo polarizzare sul suo nome l'attenzione e l'interesse della critica e del pubblico.
Era nato poeta sulla scia del D'Annunzio, giunto alla poesia siciliana attraverso Vincenzo De Simone, che negli anni Trenta, ma anche da prima, era stato il pontefice massimo delle nostre lettere; ma si era distaccato subito dall'amico, certamente prima della seconda guerra, essendosi maturata in lui una concezione diversa dalla realtà, essendosi fatta strada in lui una ideologia diversa da quella imperante. Da quel travaglio che operò un rinnovamento non solo nei contenuti della sua poesia, ma anche nella forma, che si liberò dagli schemi tradizionali, ormai anchilosati e privi di vita, nacque "Lu pani si chiama pani", composto negli anni della guerra e immediatamente dopo, ma apparso solo nel 1954 con la traduzione di Salvatore Quasimodo. Il successo fu totale e continua fino ad oggi, facendo d'Ignazio una delle figure più popolari di tutta la letteratura italiana.
Della sua poesia, tradotta in molte lingue, dal francese al
rumeno, dal russo al greco, si sono interessati i maggiori critici italiani e
stranieri, e i confronti che si sono fatti sono quelli con Neruda ed Eluard, con
Prevért e Majakovski. Alla richiesta di quali poesie scegliere per una
antologia, disse: "scarta i limiuna muffuti e cogghi chiddi frischi chi
pampini a l'arbulu. Sarebbe un segno d'amore alla poesia e alla Sicilia". Le
poesie di Buttitta non sono affatto limiuni muffuti (limoni ammuffiti), e
i molti lettori di Ignazio l'hanno constatato; la vera poesia non
muffisci mai!
Salvatore Camilleri
Opere:
"Sintimintali", poesie con
prefazione di G. Pipitone Federico, edizioni Sabio, Palermo 1923;
“Marabedda”, edizioni La Terrazza,
Palermo 1928;
“Lu pani si chiama pani”,
traduzioni in versi di Salvatore Quasimodo, illustrazioni di Renato Guttuso,
edizioni di Cultura Sociale, Roma 1954;
“Lamentu pi la
morti di Turiddu Carnivali”, traduzione di
Franco Grasso, Edizioni Arti Grafiche, Palermo
1956;
“La peddi nova”,
prefazione di Carlo Levi, edizioni Feltrinelli, Milano 1963;
“Lu trenu di lu suli”,
introduzione di Leonardo Sciascia, edizioni Avanti!, Milano 1963;
“La paglia bruciata”,
prefazione di Roberto Roversi con una
nota di Cesare Zavattini, edizioni Feltrinelli, Milano 1968;
“Io faccio il poeta”, prefazione
di Leonardo Sciascia, edizioni Feltrinelli, Milano 1972 (Premio
Viareggio);
“Il cortile degli Aragonesi”,
(rielaborazione di un’opera teatrale di autore ignoto), edizioni Giannotta,
Catania 1974;
“Il poeta in piazza”, edizioni
Feltrinelli, Milano 1974;
“Prime e nuovissime”, Gruppo
Editoriale Forma, Torino 1983;
“Le pietre nere”, edizioni
Feltrinelli, Milano 1983.
U tempu longu (Il tempo lungo)
A sittant'anni e doppu mentri cala u sipariu e accurza a vista, l'omu leggi 2 Nuvembri nto calannariu di l'occhi. Ma stamatina, E diri ca c'è a guerra, E diri c'haiu a carni scurciata, D'unni veni sta luci Cu sfardò i negghi Cu mi fa vìdiri Non è a puisia; Zocch'è e pirchí, Zocch'è e pirchí Zocch'è e pirchí Stamatina addivintavu omu. |
A settant'anni e dopo Ma stamattina, E dire che c'è la guerra, E dire che ho la carne scorticata, Da dove viene questa luce Chi squarciò le nuvole Chi mi fa vedere Non è la poesia; Cos'è e perché, Cos'è e perché Cos'è e perché Stamattina sono diventato uomo. |
Cumpagni di viaggiu - Compagni di viaggio
Stasira li cimi di l'arbuli Sunnu li paroli di sempri Unn'è chi ghiti a càdiri Cu vi jetta li riti Cumpagni di viaggiu, Si u suttirrastuvu chi morti Si ristò a bruciari Lu me straziu è pi vui stasira, Non vurria chi mai turnassi |
Stasera le cime degli alberi Sono le parole di sempre Dove andrete a cadere Chi vi getta le reti Compagni di viaggio, Se lo sotterraste con i morti Se restò a bruciare il mio strazio è per voi stasera, Non vorrei che mai tornasse |
La voce di Eduardo De Filippo, appena nominato senatore a vita dal presidente Pertini, nel carcere minorile di Napoli, di cui abbiamo riferito nei giorni scorsi, ha ispirato a Ignazio Buttitta la poesia che qui pubblichiamo. Buttitta e De Filippo si conoscono da molto tempo, si stimano come artisti e come uomini, come le espressioni più antiche e vigorose delle due grandi città del Sud: Palermo e Napoli, capitali delle due Sicilie. "È una poesia e insieme una dedica: siamo molto lieti di proporla ai lettori".
Grazii, Eduardu, grazii (Grazie, Eduardo, grazie)
Eduardu, Ora a fa parrannu A facìanu l'antichi E l'urtima puisia Cu è onestu, non è fissa, Si io, Eduardu, di nicu, Me patri mi dicìa E i marioli, animi nnuccenti, Grazii, Eduardu, grazii, |
Eduardo, Ora la fa parlando La facevano gli antichi E l'ultima poesia Chi è onesto, non è fesso, Se io, Eduardo, da piccolo, Mio padre mi diceva E i marioli, anime innocenti, Grazie, Eduardo, grazie, |
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