Sin dalla nostra prima infanzia e poi durante tutti i nostri corsi scolastici abbiamo sempre appreso dalla storiografia ufficiale, quella di regime, scritta dai vincitori, che Garibaldi è stato il nostro più grande eroe dell'epoca moderna, l'eroe dei due Mondi, il nostro più grande benefattore. Viene insegnato che grazie a lui la tirannide borbonica, sempre descritta nei libri scolastici (e non) come l'Orco delle favole perennemente insaziabile di carne umana, fu sconfitta. Si è detto che la Storia la scrivono i vincitori e bisogna aggiungere che i vinti hanno sempre torto. Vae victis!
Essendo ormai trascorsi circa 164 anni dall' invasione garibaldina e smorzandosi le passioni, la realtà ci fa sfumare la favola tramandata dai nonni. Quindi, l'idolo acquista la sua giusta dimensione ed in una parola il senso critico prende il sopravvento sul mito e sull'apologia ad ogni costo.
In queste mie sommarie considerazioni che seguono, non intendo parlare dell'uomo Garibaldi, tenuto sempre nascosto dalla storiografia scolastica ufficiale e così non approfondisco il fatto che il nostro "beneamato eroe" nel Sud America si rese colpevole di furto di cavalli e per punizione gli mozzarono l'orecchio destro, tanto che fu costretto a fare il capellone per tutta la vita al fine di nascondere una così infamante mutilazione. Mi limito appena ad accennare ai suoi sfortunati amori: in primis con la diciottenne uruguayana Ana Maria Ribeiro da Silva (meglio conosciuta come Anita) coniugata con Manuel Duarte de Aguiar, che lei abbandonò non appena conobbe il nostro Garibaldi. Successivamente sposò, alla morte del marito, a Montevideo nel 1842, e dopo con la ricchissima marchesa Raimondi, che egli, dopo le nozze trovò incinta da un altro uomo.
Tutti questi fatterelli umani ed altri che per brevità tralascio, potrebbero avere rilevanza in uno studio psicologico del personaggio per capirne l'intima essenza, ma non trovano giustificazione nel tema che mi sono proposto di trattare, che è quello riguardante l'ombra del tradimento. Sussurrato da pochi, aleggiante sulla luminosità eroica esaltata dai vincitori e perciò dai molti al riguardo della battaglia garibaldina di Calatafimi combattuta il 15 maggio 1860. Perciò tralascio ogni altra considerazione ed entro subito in tema facendo alcune premesse indispensabili per meglio lumeggiare i fatti.
LA VITTORIA DEI MILLE A CALATAFIMI FU FRUTTO DI PURO EROISMO O VI PESA L'OMBRA DEL TRADIMENTO?
Sono passati circa 164 anni dall'annessione della Sicilia al Regno del Piemonte dopo la ben riuscita invasione garibaldina sostenuta dalla "potenza inglese" e dopo le due più importanti e cruente battaglie combattute sul colle di Pianto Romano di Calatafimi e a Milazzo. Ho notato che in questi ultimi tempi si è incominciato a discutere e a scrivere dell'impresa garibaldina in senso critico sino al punto di smitizzare il personaggio Garibaldi e la sua più importante impresa che va sotto il nome "dei Mille".
La battaglia di Calatafimi pur nella modestia delle sue dimensioni nell'impresa dei Mille, ha avuto una importanza eccezionale perché ha letteralmente sbarrato le porte dell'invasione consentendo a Garibaldi ed alla sua banda di occupare in poco tempo la città più importante della Sicilia, quale era ed è Palermo. Inoltre, tutta l'attuale provincia di Trapani e parte della provincia di Palermo senza trovare alcuna consistente resistenza. Dal punto di vista psicologico, poi, la vittoria di Calatafimi non solo rincuorò le truppe garibaldine ma fece apparire le stesse agli occhi del popolo come invincibili e addirittura protette da Dio e dai Santi, nonostante si trattasse di uomini dichiaratamente anticlericali, atei e massoni.
L'11 maggio 1860 avvenne lo sbarco dei garibaldini a Marsala, ubriachi d'avventura, senza trovare la benché minima resistenza tanto che possiamo paragonare il detto sbarco all'arrivo di una allegra brigata di turisti in vena di godersi la splendida primavera siciliana. I marsalesi li accolsero con estrema diffidenza tanto che il garibaldino Giuseppe Bandi ebbe, poi, a scrivere in una sua cronistoria:"Fummo accolti dai marsalesi come cani in chiesa". Da bravi invasori i garibaldini corsero subito a mettere le mani nelle casse della tesoreria comunale, ma trovarono pochi spiccioli così come ebbe a scrivere lo scrittore garibaldino Ippolito Nievo perché i previggenti marsalesi avevano provveduto a mettere in salvo il tesoro comunale.
Garibaldi avendo trovato a Marsala la più gelida accoglienza nella più assoluta indifferenza, prese la via per Salemi dove aveva spedito il La Masa in esplorazione e dove ovviamente i "patrioti" gli avevano assicurato accoglienza. Giunto nel feudo Rampingallo si fermò a bivaccare nella masseria del salemitano Alberto Mistretta e il mattino del 13 maggio fece ingresso con tutto il suo seguito a Salemi, dove trovò calorosa accoglienza dalla maggior parte dei "Cappeddi" salemitani, che gi l'aspettavano come da copione e che avevano preparato "le Coppole" cioè a dire il popolino a subire questa ennesima invasione con la promessa che sarebbe stata abolita l'odiosa tassa sul macinato e che i nuovi arrivati avrebbero assicurato una vita migliore per tutti.
Garibaldi a forza s'insediò nel palazzo del riluttante buon marchese Emanuele di Torralta, che dovette fare buon viso a cattivo giuoco, così come mi hanno riferito tantissimi vecchi allorquando io ero ragazzino. Mi è stato anche riferito dalle stesse persone che altrettanta cosa fu costretto a fare il sindaco del tempo, don Tommaso Terranova, che comprensibilmente avendo giurato fedelt ai Borbone (o Borboni), si aspettava una violenta repressione nel caso di insuccesso dell' invasione. Rincuorato dall'accoglienza salemitana e senza incontrare alcuna ombra di resistenza il nostro "Eroe" il 14 maggio compie a Salemi un gesto platealmente eclatante avente chiaramente lo scopo di dare una parvenza di legittimazione alla sua impresa, e si autoproclama dittatore in nome di Vittorio Emanuele su invito di non ben precisati "notabili" ed in esecuzione di altrettante fantomatiche deliberazioni di imprecisati "Comuni liberi dell'Isola".
Ovviamente fece razzia dei denari delle casse comunali e comodamente riorganizzò tutte le sue sparute forze nella certezza che da un giorno all'altro doveva comunque avvenire lo scontro con l'esercito borbonico, che inspiegabilmente dopo ben quattro giorni dallo sbarco dei Mille in territorio siciliano non si decideva ancora ad andargli incontro prendendosela molto comodamente come se si trattasse non di una invasione nemica, ma di una pacifica delegazione straniera in visita alle contrade siciliane. Quest'ultima spontanea e naturale considerazione dà la sensazione che sotto sotto ci fosse qualcosa di poco chiaro e addirittura di losco per come gli eventi successivi lasciano supporre.
Il nostro "Eroe" la mattina del 15 maggio parte da Salemi con tutta l'accozzaglia della sua truppa, male armata e malamente addestrata perché costituita da giovani raccogliticci del Nord Italia, animati, però, da sconfinato spirito d' avventura e da sacro furore patriottico, nonché affascinati e plagiati dal carismatico loro capo Giuseppe Garibaldi, e si avvia per la strada che porta a Vita (TP). Attraversa tale paesino senza incontrare ostacoli ed incomincia a scendere nella strada a valle, che poi sale verso Calatafimi.
Finalmente lo Stato Maggiore dell' Esercito borbonico dà ordine al generale brigadiere Francesco Landi, che era acquartierato ad Alcamo, di andare incontro agli invasori. Il 14 maggio il Landi lascia Alcamo con le sue truppe e inspiegabilmente, invece di proseguire verso Salemi dove avrebbe senz'altro trovato i garibaldini impreparati, giunto nei pressi di Calatafimi si ferma e fa riposare i suoi soldati mandandone un po' in ricognizione verso Salemi.
Nel frattempo, il Maggiore Sforza che comandava l' 8° Battaglione, sistemò i suoi uomini sul colle chiamato Pianto Romano posto di fronte alla strada che da Vita porta a Calatafimi.
La storica spedizione garibaldina, per la storiografia ufficiale, ha il sapore di un’avventura epica quasi cinematografica, compiuta da soli mille uomini che salpano all’improvviso da nord e sbarcano a sud, combattono valorosamente e vincono più volte contro un esercito molto più numeroso, per poi risalire la penisola fino a giungere a Napoli, Capitale di un regno liberato da una tirannide oppressiva, e poi più su per dare agli italiani la nazione unita.
Troppo hollywoodiano per essere vero, e difatti non lo è. La spedizione non fu per niente improvvisa e spontanea ma ben architettata, studiata a tavolino nei minimi dettagli e pianificata dalle massonerie internazionali, quella britannica in testa, che sorressero il tutto con intrighi politici, contributi militari e cospicui finanziamenti coi quali furono comprati diversi uomini chiave dell’esercito borbonico al fine di spianare la strada a Garibaldi che agli inglesi non mancherà mai di dichiarare la sua gratitudine e amicizia.
I giornali dell’epoca, ma soprattutto gli archivi di Londra, Vienna, Roma, Torino, Milano e, naturalmente, Napoli forniscono documentazione utile a ricostruire il vero scenario di congiura internazionale che spazzò via il Regno delle Due Sicilie non certo per mano di mille prodi alla ventura animati da un ideale unitario.
Il Regno britannico, con la sua politica imperiale espansionistica che tanti danni ha fatto nel mondo e di cui ancora oggi se ne pagano le conseguenze (vedi conflitto israelo-palestinese), ebbe più di una ragione per promuovere la fine di quello napoletano e liberarsi di un soggetto politico-economico divenuto scomodo concorrente.
Innanzitutto furono i sempre più idilliaci rapporti tra il Regno delle Due Sicilie e lo Stato Pontificio a generare l’astio di Londra. La massoneria inglese aveva come priorità politica la cancellazione delle monarchie cattoliche e la cattolicissima Napoli era ormai invisa alla protestante e massonica Londra che mirava alla cancellazione del potere papale. I Borbone costituivano il principale ostacolo a questo obiettivo che coincideva con quello dei Savoia di impossessarsi dei fruttuosi possedimenti della Chiesa per risollevare le proprie casse. Massoni erano i politici britannici Lord Palmerston, primo ministro britannico, e Lord Gladstone, gran denigratore dei Borbone. E massoni erano pure Vittorio Emanuele II, Garibaldi e Cavour.
In questo conflittuale scenario di potentati, la nazione Napoletana percorreva un suo percorso di crescita dettata della politica di Ferdinando II, che portò avanti una politica di sviluppo autonomo atto a spezzare le catene delle dipendenze straniere.
La flotta navale delle Due Sicilie costituiva poi un pericolo per la grande potenza navale inglese anche e soprattutto in funzione dell’apertura dei traffici con l’Oriente nel Canale di Suez, i cui scavi cominciarono proprio nel 1859, alla vigilia dell’avventura garibaldina.
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